Markus Torgeby – Utet libri
Un “Thoreau svedese” corre nella foresta artica per trovare se stesso
Sottotitolo “Trovare se stessi correndo nella foresta artica”
La corsa è movimento della persona libera. Non ha bisogno di palestre o macchinari. Non si deve far altro che infilarsi le scarpe ed uscire. Esplorare. Lasciar circolare il sangue nelle vene.
M. Torgeby
Sono stato subito attratto da questo libro dalla copertina accattivante ove un runner con felpa e pantaloni corti corre solitario in una giornata nevosa tra due file di conifere nella foresta artica; si presenta con il titolo, “Running wild”, che con libertà ho tradotto “Correndo nella natura selvaggia”. Propone un racconto che sembra più incentrato sulla continua ricerca dell’autore di un senso della propria vita piuttosto che sul running in quanto fatto tecnico ed emozionale. E’ comunque sempre presente nella narrazione l’invisibile filo rosso della corsa a tenere insieme il difficile mestiere del vivere di questo giovane scrittore svedese con la corsa nel sangue, posta al centro della propria esistenza. Una corsa vissuta prevalentemente in mezzo alla natura selvaggia con presenze sporadiche su pista.
Ha l’intuizione di capire sin da piccolo che la corsa lo accompagnerà per il resto della sua vita proprio perché ama correre nonostante inizi agonistici non proprio incoraggianti giungendo a concludere con severa e sincera autoanalisi:” se non so correre al momento giusto sono proprio un pappamolla”. Purtroppo in allenamento corre più veloce che in gara ove non riesce ad esprimere tutto il suo potenziale. Il suo allenatore ne intuisce il valore atletico finendo però per imporgli pressioni psicologiche che non riesce a sopportare. Subisce inoltre un infortunio al piede a seguito del collasso dell’arco plantare trattato con parole discutibili da parte del coach: “Il tuo piede non ha niente che non va. Il problema è tutto nella testa”. Markus vive una situazione famigliare tradizionale connotata dagli affetti di nonni, fratelli e genitori in particolare della giovane mamma ammalatasi precocemente di sclerosi multipla che va peggiorando a vista d’occhio pur sperando dentro di sé di poter guarire un giorno.
A scuola non si trova bene, si sente costretto in spazi limitati e, sognando l’esterno, fa registrare rendimenti poco lusinghieri; finisce per frequentare l’università popolare di Hailland, la sua salvezza. Conosce, tra gli altri, un professore certo Ug che gli propina una filosofia sulla corsa diametralmente opposta a quella sinora vissuta:” se vuoi continuare a correre devi diventare allenatore di te stesso. Nessuno può conoscere il tuo corpo meglio di te. La corsa può essere un modo per diventare una persona più grande, per trovare qualcosa che va al di là delle prestazioni e dei tempi. Se vuoi continuare deve smetterla di vederla come una cosa unidimensionale”. Lui però preferisce fare una scelta estrema per riuscire a trovare sé stesso andando a vivere all’aperto per almeno un anno per vedere che effetto hanno su di lui la foresta e le stagioni, specialmente l’inverno con le sue temperature polari. Decide di costruirsi una rudimentale kota (piccola abitazione nordica fatta di legno) attingendo al legname del bosco e ricoprendola con un telo; vivrà lì, immerso nella natura, anche se di tanto in tanto farà qualche capatina in città per procurarsi le poche ed essenziali cose necessarie per la sopravvivenza. E’ proprio ciò che desidera: “stare solo con la sua testa” e, nel frattempo “imparare a vivere senza far niente”, isolato.
Ovviamente non si dimentica di correre in quel paradiso selvaggio dove vive costituito da natura incontaminata perché si sente forte e la corsa lo rende felice. Giunge alla conclusione dopo nove mesi di permanenza isolato nella foresta che questa esperienza gli ha permesso di soddisfare i suoi bisogni primari senza desiderare nient’altro passando l’inverno più bello della sua vita.
Non rinuncia, però, a cercare ancora la pista: si affida all’autostop per andare a Krokom, un piccolo centro della Svezia centro-settentrionale, dove ripete quindici volte i 400 metri impiegando 70 “ per ogni giro di pista con un intervallo di riposo di un minuto tra una prova e l’altra. Termina felice sentendo le gambe leggere e polpacci duri. Nemmeno rinuncia a partecipare alla St Olavslopper una staffetta di dieci atleti che percorrono 10 km al giorno per quattro giorni. La sua squadra viene stracciata da un team africano i cui atleti viaggiano a passo leggerissimo come se non facessero sforzo; si innamora del loro modo di correre ripromettendosi d’imitarli nel modo d’interpretare la corsa.
Decide così di andare ad allenarsi in Africa ad aggregarsi a questi fantastici runners per almeno sei mesi. Racimola i soldi per viaggio e permanenza e spicca il volo per la Tanzania. Inizia subito ad allenarsi con loro che, benché corrano “tranquilli”, secondo le indicazioni del loro coach, finiscono per lasciarlo indietro alla prima uscita durante un classico “lungo” con successive progressioni di velocità. Le indicazioni del nuovo allenatore sono precise: “é tutto nella tua testa. Se sei stanco anche gli altri lo sono. Devi solo stare al passo, non arrenderti”. Finirà per adattarsi stringendo i denti sino a fare le ripetute in salita con le ginocchia alte e passi corti. Nel frattempo inizia a rendersi conto degli effetti della cura atletica africana: dimagrisce al punto che si vedono le costole. Per taluni dei suoi attuali compagni di allenamento la corsa è l’unico mezzo di sostentamento: corrono per poter procurarsi da vivere anche se la corsa è anche altro. Si allenano su pista in modo intenso: 600 metri a velocità spaventosamente alta e poi 200 metri di cosa leggera con mente concentratissima. Impara a correre al massimo della capacità aerobica “dalla parte giusta del limite senza produrre acido lattico” pensando solo alla respirazione disconnettendo il corpo dalla testa.
Comincia a rendersi conto che gli atleti africani corrono con maggior facilità perché hanno gambe leggere e glutei potenti, sono magri ed esplosivi allo stesso tempo: Lui non riesce a correre più forte se non pensando di rinascere in un altro corpo. Poi il ritorno alla casa dei genitori per comunicare di “aver bisogno di stare un po’ da solo, stanco nella testa e nel corpo”.
Guardandosi allo specchio finisce per paragonarsi ad “un insetto stecco con gli occhi infossati “Decide allora di tornare ad essere libero là nella foresta a contatto con sé stesso. Comincia a mangiare senza porsi troppi problemi; prende peso forgiando muscoli più torniti. Vive leggendo, mangiando e correndo involandosi tra torbiere e montagne. La corsa è sempre la sua compagna inseparabile come la foresta che lo accoglie per altri tre inverni consecutivi.
Torna poi a precipizio alla casa paterna quando gli viene comunicato che il nonno è in cattive condizioni di salute; trova però il fiato per suggerirgli di “trovarsi una ragazza: “sposala lascia che sia lei a decidere per Te”. Parole profetiche. Dopo pochi mesi conosce Frida; se ne innamora seriamente. La trova equilibrata e incredibilmente stabile. Le qualità di cui difetta. Si sposano e presto saranno genitori di tre figlie. Lui però non rinuncia a correre due volte al giorno a costo di sacrificare tempo alla famiglia pur avvertendo qualche dolore articolare mentre la sua compagna preferisce starsene in casa a dipingere durante il suo tempo libero. Ne esce il ritratto di una coppia felice ed un’esistenza normale vissuta in una graziosa e tipica casetta nordica da lui costruita in mezzo alla natura. Si, forse, era proprio questo ciò che Marcus cercava da tempo ed alla fine l’ha finalmente trovato. Una esistenza tranquilla, un normale contesto famigliare stabile senza privarsi delle uscite nei tanti spazi offerti dalla natura a passo di corsa per sentirsi sempre libero.
Commento finale: gli appassionati di running non mancheranno di apprezzare questo teso scorrevole nonché le essenziali indicazioni tecniche che qua e la sono contenute insieme ai fatti non banali della vita di questo originale runner svedese. Nella narrazione di Markus ho colto un’assonanza con il famoso libro Walden di Henry D.Thoreau( 1817-1862) ovvero la vita nei boschi, testo regalatogli dal padre di una sua amica e che non mancò di interessarlo al punto
di affermare: “descrive cose che provo e penso mentre corro”. Si riscontra un comune sentire tra Lui e Thoreau costituito dal modo d’intendere il rapporto con la natura che diventa tramite per migliorare sé stessi mettendo in secondo piano preoccupazioni economiche e sociali. Così la vita diventa un lungo cammino spirituale di elevazione morale, ricerca della propria più profonda identità e comunione con il mondo circostante, nello specifico madre natura.
Commenti di Pietro Cristini